31 agosto 2016 di Massimo Fuggetta

Perché così poche?

Borsa Italiana, Made in Italia Fund

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È noto in finanza come equity home bias puzzle: la preferenza degli investitori per le azioni del proprio paese e il conseguente sovrappeso nei loro portafogli rispetto ai precetti della teoria standard.

Non in Italia. Mentre sono carichi di obbligazioni governative, gli investitori italiani non hanno alcuna predilezione per le azioni domestiche. Non pensano alle azioni come domestiche verso estere: le azioni italiane sono semplicemente una fetta dei loro portafogli azionari europei, o una fetta ancora più sottile della loro esposizione alle azioni globali.

Questo ha poco a che fare con il rispetto dei principi di diversificazione. È il risultato di 150 anni di sottosviluppo – ben documentato in questo volume dal responsabile del Dipartimento Studi della Consob, Giovanni Siciliano, come nel suo precedente libro.

La persistente diffidenza degli italiani nei confronti del loro mercato azionario ha avuto un enorme impatto inerziale sulla sua crescita, che si sente ancora oggi nonostante i decisivi progressi in leggi, norme e regolamenti registrati nel corso degli ultimi due decenni. Il mercato azionario italiano è ancora molto piccolo rispetto alle dimensioni dell’economia. Ci sono solamente circa 300 società quotate – meno della metà delle aziende quotate in Francia e in Germania e meno di un quarto di quelle del Regno Unito.

Perché così poche? La risposta comune punta alla riluttanza dei proprietari delle società a condividere il controllo e a sottoporsi al pubblico scrutinio. Ma la risposta è fuori bersaglio. Il problema non è la mancanza di offerta. Ci sono centinaia di aziende italiane che sarebbero felici di quotarsi e accedere ad una fonte così importante di finanziamento e di riconoscimento. Il problema è la mancanza di domanda. In Francia e in Germania, e di nuovo doppiamente nel Regno Unito, ci sono dozzine di società di gestione del risparmio il cui principale interesse e competenza è il mercato azionario domestico. Così una società che arriva sul mercato sa di poter contare su un interesse naturale. Se la sua proposta di valore è convincente, ci sarà domanda interna per le sue azioni.

Non in Italia, dove tale focus è notevolmente carente. Con poche eccezioni, i fondi che investono nel mercato italiano sono gestiti attorno all’indice, che è fortemente concentrato nel settore finanziario e in quello dei servizi di pubblica utilità. Aggiungendo ENI, Luxottica e pochi altri produttori di beni di consumo si ha la maggior parte del mercato italiano – circa 50-60 titoli in tutto, che lasciano poco spazio alle altre 250 aziende, che sono quindi assenti nella maggior parte dei fondi, o possono al più avere una presenza simbolica in quelli più grandi, limitata ad un paio di decimali.

Prendiamo il caso di El.En., l’azienda fiorentina produttrice di sistemi laser medicali ed industriali. La società ha un valore di mercato di circa 300 milioni di euro ed è posseduta al 48% dai suoi fondatori e manager. Questo lascia più di 150 milioni di capitale flottante. Chi possiede queste azioni? In un paese focalizzato sul mercato azionario interno ci si aspetterebbe di vedere un buon numero di fondi italiani tra i principali azionisti. Ma non è così. Il maggiore azionista è olandese, il secondo è americano, il terzo svizzero, il quarto belga, e così via. C’è un solo fondo italiano tra i primi dieci, ed è l’eccezione piuttosto che la regola.

Facciamo il confronto con Store Electronic Systems, una società francese che vende sistemi di etichettatura. Stessa industria – Apparecchiature elettroniche – stesse dimensioni (valore di mercato 270 milioni) e stesso flottante, 52%. La differenza è che, tra i primi dieci azionisti esterni, otto sono francesi. E questa è la regola piuttosto che l’eccezione. Analoga situazione in Germania, dove il livello medio di flottante è paragonabile all’Italia; ed è più pronunciata nel Regno Unito, dove il flottante è più del doppio e praticamente tutti i principali azionisti di imprese di piccole dimensioni sono gestori di fondi locali.

Cosa si sono persi i fondi italiani ad ignorare El.En.? Ecco la risposta:

Fonte: Factset

E questo non è solo il caso di El.En., ma di decine di altre imprese, molte delle quali appartengono al segmento STAR della Borsa Italiana, dove le imprese sono obbligate a sottoporsi a standard particolarmente rigorosi di corporate governance, trasparenza e comunicazione. Questa è la performance del segmento STAR dal suo lancio, rispetto all’indice principale:

Fonte: Factset

Date una buona occhiata al grafico: mostra che il valore del mercato italiano si è dimezzato dal 2002. Non è sorprendente quindi che il numero dei fondi Italia si sia più che dimezzato nel corso del periodo – in barba all’home equity bias. Allo stesso tempo, tuttavia, l’indice del segmento STAR è andato su 2,5 volte – una performance stellare che, oltre agli azionisti di controllo, ha ampiamente beneficiato gli investitori esteri piuttosto che gli italiani.

Scarsa fiducia, quindi nessun home bias, quindi bassa domanda, quindi pochi fondi, quindi poche quotazioni. Per invertire questo circolo vizioso è sbagliato iniziare dalla fine, confondendo causa ed effetto. In economia è la domanda che crea l’offerta, non il contrario.

Oggi c’è ampio supporto per la fiducia. Il quadro istituzionale italiano in materia di tutela degli investitori non è secondo a nessuno. Questo non significa naturalmente che sia impeccabile e privo di problemi. Ma i problemi sono simili a quelli riscontrabili in altri mercati, e incomparabili, in frequenza e ampiezza, al caos del XX secolo.

Il passo successivo è quello di incoraggiare l’interesse degli investitori per il loro mercato interno. Ma questo può essere fatto solo mettendo in evidenza i suoi punti di forza, non ribadendo lo status quo. Le piccole e medie imprese sono il nucleo dell’economia italiana. Quindi dovrebbero essere il nucleo di fondi di investimento volti a rilanciare la domanda latente di azioni domestiche. Solo una domanda naturale per le loro azioni può indurre un decisivo salto nella motivazione delle aziende private ad accedere al mercato, riducendo così e infine colmando il divario tra il mercato italiano e i suoi vicini.

Il Made in Italy Fund è apertamente home-biased – detiene unicamente aziende italiane. Ma lo fa nella maniera che riteniamo più ragionevole: tralasciando l’indice generale e concentrandosi sui titoli con un valore di mercato al di sotto di un miliardo di euro. Si tratta di un universo attualmente comprendente circa 250 aziende, che sono circa l’80% dei nomi quotati, ma rappresentano solo il 9% del valore totale del mercato.

Molti dei titoli inclusi nel fondo appartengono al segmento STAR, ma questo non è un requisito. Inoltre, tracciando una linea al di sopra di un miliardo lasciamo fuori circa dieci dei più grandi titoli dell’indice STAR – aziende di successo come Brembo (3.3 miliardi di capitalizzazione), IMA (2.2 miliardi) e Interpump (1.7 miliardi), che rappresentano oltre il 50% del valore dell’indice.

Il nostro obiettivo è di selezionare le storie di successo di domani. Man mano che queste crescono, il Made in Italy Fund si accrescerà con loro, a beneficio dei suoi sottoscrittori. È augurabile che altri fondi ci seguano nel tempo, accrescendo la domanda di azioni domestiche e così creando un terreno favorevole per l’accesso al mercato di più imprese, a beneficio dell’intera economia italiana.

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